CAI Alatri - Via dei Manni, 10 - 03011 Alatri (FR)

I Monti Ernici

A Nord di Frosinone e della valle del Sacco, si estende una delle zone più caratterizzate del territorio degli antichi Ernici. Essendo di Alatri, è naturale che questa sia la zona da me più esplorata e  conosciuta, mentre, per  i territori di VerolaeFerentinum e Anagna, prego l’eventuale lettore di supplire alla carenza di quanto da me conosciuto ed esposto.

Il territorio dell’antica Aletrium coincide, in massima parte, con il bacino del Fiume Cosa, nel cuore degli Ernici, la zona che, da sempre, condiziona i contatti con le altre realtà storico-geografiche che la circondano

Era, infatti, punto di passaggio obbligato per le transumanze dal bacino del Fucino alla valle del Tevere, attraverso le valli del Cosa e dell’Aniene e per le transumanze  dal bacino del Fucino – valle Roveto e dagli alti pascoli degli Ernici alle Paludi Pontine, attraverso la valle del Cosa fino alla valle del Sacco. Tutto il territorio conserva le testimonianze dei nostri più antichi progenitori siano essi stati cacciatori che seguivano gli erbivori nella loro ricerca di pascoli o pastori che, per lo stesso motivo, guidavano greggi ed armenti. Attualmente il bacino del Cosa è occupato, oltre che dal comune di Alatri, dai centri di Torre Cajetani, Trivigliano, Guarcino, Vico nel Lazio, Collepardo e Fumone e, nella parte finale, da porzioni di territorio dei comuni di Veroli e Frosinone.

Fino al XIII secolo erano ancora presenti il castello di Trisulti che controllava i valichi degli Ernici orientali e l’accesso alla valle di San Nicola e quello di Tecchiena che sorvegliava l’entrata da Ferentino. Per alcuni studiosi locali, il territorio dell’antica Aletrium comprendeva anche le pendici orientali degli Ernici fino al Liri, con i comuni di Morino e Rendinara.

Catena montuosa del Sub-Appennino Centrale

Confine naturale tra le regioni Lazio ed Abruzzo, la catena montuosa dei Monti Ernici
si estende in direzione Ovest-Nord/Ovest – Est-Sud/Est ed è delimitata a Nord dalla valle del f. Aniene, ad Est dalla valle del f. Liri, a Sud ed a Ovest dalla valle del f. Sacco. La configurazione attuale è il risultato dell’evoluzione che ha interessato la zona per centinaia di milioni di anni e che ha lasciato nelle sue rocce testimonianze attraverso le quali si può leggere tutta la loro storia. C’era il mare e nel mare molluschi. Ed il mare scomparve e crebbero le montagne ed il tempo erose le montagne e tornò il mare. Sugli scogli e nelle
rocce si fissavano le rudiste, si adagiavano sul fondo scheletri di squali e le ostriche e gli altri bivalve si ammucchiavano in masse compatte.
E crebbero ancora le montagne. E salivano e nascondevano ammoniti tra i ciottoli erosi delle antiche montagne, frammenti di rudiste e denti di squalo, ciprine e pettini, ostriche giganti e lische di pesci.
Tra i pascoli rigogliosi pascolavano l’elefante antico dalle zanne possenti, il rinoceronte e l’ippopotamo dalla mole massiccia ed il bue antico dalle superbe corna e vennero i cavalli, i cervi, i buoi, gli stambecchi…e c’erano leoni e tigri, lupi e volpi, aquile ed avvoltoi e c’erano i piccoli animali che ancora incontriamo.
Ed irruppero i vulcani. Violenti cataclismi accompagnavano le loro eruzioni e le loro esplosioni.
Dove furono piogge di cenere e lapilli, fiumi di fango coprirono tutto quello che era stato, i terremoti sconvolsero il paesaggio, i fiumi cambiarono il loro corso, invasero nuove valli e le colmarono; erosero i fianchi dei monti per aprirsi nuove vie.
I ghiacci, infine, arrotondarono le cime, lisciarono le rocce, scavarono orride valli, si sciolsero e l’acqua penetrava tra i calcari e gli scioglieva.
Caverne immense che si formavano e crollavano e crollano; baratri, inghiottitoi, doline, bacini e fiumi asciutti, fiumi sotterranei, sorgenti che sanno di neve e di zolfo e sono gli Ernici, i nostri Ernici.

I CONFINI

Il bacino del Cosa è compreso nei seguenti termini:
a N.O., dagli Altipiani di Arcinazzo al M. Vermicano, gli Ernici che fanno da spartiacque con il bacino dell’alto Aniene.
A Nord e a N.E., dal Vermicano al Monte Ginepro, e da Monte Ginepro a Monte Passeggio gli Ernici che fanno da spartiacque con il bacino dell’alto Liri.
A est e sud est, i Monti Maggiori che fanno da spartiacque con la valle dell’Amaseno.
A Sud, la media valle del Sacco, attraverso la piana di Tecchiena.
A Ovest, una serie di piccoli rilievi che fanno da spartiacque con il bacino del medio Sacco.

L’OROGRAFIA

Il sistema orografico del bacino del Cosa si presenta molto variegato per la disposizione dei rilievi e le differenze di quota.
Il principale sistema montuoso è formato dagli Ernici che, per la porzione che ci interessa, vanno dagli altipiani di Arcinazzo (altezza media m s.l.m.850) al monte Passeggio (m s.l.m.2064).
I Monti Maggiori sono l’altro sistema montuoso che, ad est, da nord a sud, con altezze che vanno dagli 850 ai 1039 mt s.l.m. formano un altopiano.
Tutti gli altri rilievi che chiudono e comprendono, ad ovest, hanno altezze modeste che raggiungono la quota massima con Fumone (m s.l.m. 786).
Ad est, piccoli rilievi accompagnano la riva destra del Cosa.
Data la natura calcarea del suolo, le valle percorse da corsi d’acqua sono piuttosto strette ed incassate profondamente, tra queste:
il Fosso del Diluvio, dagli Altipiani al Lago di Canterno;
la Valle Macerosa, da Prato Lungo a Guarcino;
la Valle del Fiume, la più caratteristica, da Capofiume e la “Fiura”.
Sempre la natura calcarea ha favorito il formarsi di bacini chiusi, più o meno ampi che formano conche drenate da inghiottitoi naturali; i più notevoli sono: Campocatino, Campovano e Canterno.
Altro fenomeno legato al carsismo è rappresentato dalle numerose grotte, interessanti sia per il lato naturalistico che archeologico e dalle doline che, nel caso del Pozzo D’Antullo e della Fossa della Volpe assumono carattere imponente.
Come già detto, le valli percorse da fiumi e torrenti sono strette, profondamente incassate ed in pratica impercorribili, non mancano però, ampie vallate dal dolce declivio che si adagiano ora tra singoli rilievi, ora tra i vari sistemi montuosi:
Prato Lungo, a N.O. di Guarcino tra il declivio degli Altipiani di Arcinazzo a Rocca Calamantina;
la Valle dell’Agnello, a nord di Vico nel Lazio, racchiusa tra il Vermicano, la Monna e la Forchetta;
San Nicola, a nord est di Collepardo, tra gli Ernici orientali e i Monti Maggiori;
la Fiura, ad est di Alatri, tra i Monti Maggiori e i rilievi che culminano con la collina di Alatri, dalla confluenza del Fiume e del Cosa a monte Sant’Angelo ;
Monte San Marino, ad ovest di Alatri, tra Montelungo e Saragone, dalle falde di Fumone alla piana di Tecchiena.
Non si può esaurire il discorso sull’orografia senza ricordare le fertili zone relativamente pianeggianti e di varia natura:
altipiani come quelli di Arcinazzo;
terrazze come la Macchia di Vico;
alluvionali come la piana di Tecchiena dove il territorio raggiunge la quota più bassa (m s.l.m.172).

L’ IDROGRAFIA

Caratteristica comune delle sorgenti degli Ernici e dei Monti Maggiori è quella di avere il periodo di magra introno al mese di novembre ed il periodo di morbida da giugno per tutta l’estate.
Queste sorgenti sono numerose e sparse per tutto il territorio, dalle valli più alte alle zone pianeggianti ed alimentano, nella maggior parte dei casi, fontane e piccoli ruscelli; non mancano, però, nella parte alta, sorgenti che alimentano corsi d’acqua d’una certa consistenza:
Trovalle, a N.O. di Guarcino, tra l’Ascendella e Monte Colonna;
Capo Cosa, a N.E. di Guarcino, tra la Forchetta e il Vermicano;
Capo Rio, a Nord di Collepardo, ai piedi della Rotonaria;
Capo Fiume, a N.E. di Collepardo, tra Monte Porcino e la Costa degli Asini.
Queste sorgenti rifornivano il Cosa con una discreta portata d’acqua che consentiva l’irrigazione della piana di Tecchiena, alimentava mulini ed opifici, tra i quali le cartiere di Guarcino e forniva un’ottima qualità di pesce.
Allo stato attuale la captazione delle sorgenti per rifornire gli acquedotti o alimentare centrali elettriche, ha quasi del tutto prosciugato le sorgenti e ridotto il Cosa ad un fosso ghiaioso; speriamo che vada in porto il progetto “Parco del Cosa” che risani, almeno, le sponde e liberi il letto dalle discariche solide e liquide.
Caratteristica del territorio sono le “lote” piccoli stagni e le “uttaghe”, fosse profonde, naturali o artificiali, che si formano nei bacini che raccolgono l’acqua piovana.
Nelle zone più alte sono anche presenti numerose “neviere” che raccolgono e conservano la neve fino all’estate inoltrata. (Fino a quando non esisteva in Alatri, anni ’30, la fabbrica del ghiaccio, i mulattieri prelevavano da queste neviere la neve per rifornire le macellerie e i gelatai)
La permeabilità del suolo non consente ai bacini chiusi di trattenere l’acqua, tranne in casi particolari come per esempio a Campocatino quando la neve gelata del fondo impermealizza lo stesso ed occlude l’inghiottitoio e le forti piogge primaverili riempiono parte della conca e formano un lago di brevissima durata.
Lo stesso fenomeno, ma per cause differenti, avveniva nel bacino di Canterno dove l’inghiottitoio principale era fornito di un sifone naturale che s’innescava quando l’acqua raggiungeva una certa quota, prosciugando il bacino.
Questo fino al 1821, quando una parziale occlusione del sifone permise il formarsi di un vero e proprio lago.

LA FLORA

Data la grande varietà di microclimi, il bacino del Cosa offre un ricchissimo campionario della flora erbacea ed arborea che cresce, spontanea o coltivata, più o meno rigogliosa, condizionata dai seguenti fattori:

L’ESPOSIZIONE

I Monti Ernici, da N.O. a N.E., formano una barriera che frenano le correnti fredde del nord, per cui si trovano tracce di flora mediterranea, lecci sopratutto, anche a quote superiori ai mille metri, nelle zone più riparate come, per esempio, sulle pareti della Rotonaria e sul versante sud dei Monti Maggiori mentre, nella valli più incassate, nel versante nord, è ancora presente un residuo dell’ultima glaciazione rappresentato principalmente dal tasso che è facile trovare, in magnifici esemplari, sopratutto nella Valle dell’Inferno, a San Giovanni e nell’orrido del Fiume, dalle sorgenti al Ponte dei Santi.

L’ALTITUDINE

Abbiamo già visto che il territorio si articola dai 2064 ai 172 metri sul livello del mare.
Questo condiziona fortemente la presenza e la varietà delle diverse specie di piante che, nelle alte quote, assumono aspetti particolari per la bellezza dei colori e la rarità della specie; non e difficile trovare la stella alpina.
Per sommi capi si può riassumere come segue:
Dai 2064 ai 1500, piante erbacee e rari ginepri;
Dai 1500 ai 1200-1000, faggi e aceri con ginepri e agrifogli nel sottobosco e nelle radure;
Dai 1200-1000 ai 700-500, i diversi tipi di querce, fitte macchie di cornioli e nocchi, carpini e un lussureggiante sottobosco;
Nelle quote più basse castagni, olmi e tutte le piante coltivate, principalmente ulivi e viti e le altre piante da frutto.

LA NATURA DEL SUOLO

L’erosione e la permeabilità del suolo lasciano ampi spazi dove possono attecchire le sole piante pioniere quali le sassifraghe e le ginestre e, successivamente, il saracco.
La stessa erosione ha creato, nei fondovalle e nelle zone a dolce declivio, ampi spazi fertilissimi dove crescono le erbe per i rigogliosi pascoli.

LA PRESENZA DI ZONE UMIDE

Abbiamo visto che i fondovalle solcati da corsi d’acqua sono ripidi e scoscesi e non offrono, quindi, la possibilità di crescita per una flora specializzata per le zone umide. L’unica pianta di un certo rilievo è il crescione che si trova nelle zone riparate e ben esposte.
Si possono, però, considerare zone umide tutti quei bacini, più o meno grandi che, anche se invasi dall’acqua per brevi periodi, nella economia della natura svolgono un ruolo importante; impediscono, infatti, la crescita di alberi e l’attività agricola e consentono lo sviluppo di specie erbacee diverse.
L’unica zona umida di un certo rilievo è rappresentata dal bacino di Canterno dove numerose piccole sorgenti alimentano ruscelli sulle rive dei quali crescono diverse piante acquatiche.

L’AGRICOLTURA E IL PASCOLO

Queste attività sono quelle che, nel territorio in esame, hanno maggiormente condizionato la flora.
L’agricoltura, infatti, presuppone la distruzione della flora precedente per l’impianto di nuove piante selezionate.
Alberi da frutto, viti ed ulivi; cereali quali faro, grano, orzo avena e, per ultimo, il mais; di legumi come le fave, i piselli, i ceci, le cicerchie; di piante tessili come il lino e la canapa che sono citati in documenti fino al XIX secolo; di gelsi per l’allevamento dei bachi da seta. Ultimi sono arrivati i pomodori e le patate. Anche il pascolo ha influito direttamente alla selezione delle erbe ed alla crescita degli alberi. I pastori, infatti, curavano che il pascolo fosse sgombro dalle erbe dannose od inutili per dare posto alla naturale crescita di foraggi. A titolo informativo e per una maggiore comprensione del condizionamento causato dall’agricoltura, bisogna ricordare che, fino all’immediato dopoguerra, erano coltivati campi ben al di sopra dei mille metri e che tutti gli statuti medioevali dei comuni del territorio in esame stabilivano che ogni cittadino era tenuto a coltivare le “cese”, terreni strappati alla montagna con terrazzamenti e taglio di boschi.

IL RIMBOSCHIMENTO

A causa del massiccio prelievo di legname effettuato per secoli e del pascolo delle capre, le zone più accessibili erano rimaste quasi prive di alberi con grave pregiudizio della stabilità del tenue manto fertile che ricopriva le rocce sottostanti:
Per questo motivo, a cominciare dagli anni cinquanta, le zone montuose furono intensamente lavorate per consentire, come scopo principale, il rimboschimento e, non secondario, l’utilizzo di manodopera disoccupata e poco qualificata.
Disgraziatamente, invece di dare spazio alle piante autoctone, si preferì immettere conifere, perfino il pino marittimo, che niente avevano in comune con l’ambiente originale e che offrono poca resistenza ai venti, non sopportano il peso della neve, e, peggio, sono causa di frequenti incendi.

L’APPROVVIGIONAMENTO DI LEGNAME

E’ a tutti noto l’uso industriale del legno per i lavori di falegnameria, di edilizia, di cantieristica, pochi hanno presente che il bosco forniva l’unica fonte di energia calorifera, sia con l’uso diretto della legna che con il carbone.
Questo ha inciso profondamente sulla flora arborea sia nella qualità, per la ricerca di legni adatti ai diversi usi che nell’estensione dei boschi. E’ possibile verificare il depauperamento degli alberi in alcune fotografie esposte nel palazzo comunale di Guarcino dove si vedono i boschi circostanti ridotti al minimo; mentre adesso, cessato il prelievo per il rifornimento delle cartiere, verdeggia un bosco rigoglioso di faggi e di querce.

LA FAUNA

Attualmente la fauna del territorio del bacino del Cosa presenta gli stessi esemplari che popolano il resto dell’Italia centrale con gli analoghi problemi legati all’ecologia.
E’ da rilevare, però, che sugli Ernici sono sicuramente presenti l’aquila reale, il lupo, l’orso ed il cinghiale che sono riusciti a sopravvivere nelle zone più inaccessibili e che recentemente è stato reintrodotto con successo il capriolo mentre il cinghiale, a causa dell’abbandono dell’agricoltura montana, ha raggiunto una quota massiccia di esemplari tanto da pregiudicare l’ecosistema e rendersi dannoso per l’agricoltura pedemontana.
Come per la flora, anche per la fauna ci sono condizionamenti che determinano la presenza delle varie specie dovuti, più che a fattori naturali, all’intervento dell’uomo.
L’abbondanza di foraggio e di acqua ha naturalmente consentito lo stabilirsi di numerosissime specie di erbivori, dai più piccoli ai più grandi che hanno richiamato la presenza dei predatori ed, infine, dell’uomo cacciatore.
Per quanto riguarda la zona in esame, siamo alle fine del paleolitico superiore, i reperti, documentati in un paio di grotte, ci mostrano residui di fauna dell’ultimo scorcio della glaciazione associati ai manufatti dell’uomo.
Che la caccia non era un problema lo dice il fatto che sono presenti, tra i residui di pasto umano, ossa, spesso bruciate, di grossi erbivori quali il cervo, il bue, il cavallo, il camoscio e lo stambecco alle quali si aggiungono, sempre più numerose, le ossa degli animali più piccoli fino al porcospino e agli uccelli.
Questo fatto potrebbe significare da una parte una forte presenza umana che ha inciso sensibilmente sul numero dei grossi erbivori di cui l’uomo si cibava, dall’altra una maggiore specializzazione della caccia.

LA PASTORIZIA

La pastorizia che è documentata nel nostro territorio già dal neolitico è stata la prima attività umana che ha inciso profondamente, al di là del contingente, nella varietà e nel numero degli animali naturalmente presente mediante l’eliminazione degli erbivori concorrenti, l’immissione di nuove specie: pecore, capre, maiali, bovini ed equini, selezionati per la produzione di carne, di pelli, di latticini e per il trasporto e la caccia spietata ai carnivori, predatori da eliminare.
Ancora nel dopoguerra, ricordo, chi uccideva una volpe o, se più fortunato, in lupo, andava in giro per la campagna, tra i contadini, o per gli stazzi, tra i pastori, a mostrare la sua preda ed averne la ricompensa.

I MINERALI presenti nel territorio del bacino del Cosa.

La disponibilità di minerali necessari allo sviluppo umano ha sempre avuto grande importanza ed anche se, per quanto riguarda la nostra zona, non ci sono e non ci sono stati studi specifici che ne documentino la presenza, l’attività estrattiva e la lavorazione, una ricerca basata su documenti, l’indagine di superficie e la tradizione orale hanno permesso di appurare la presenza di alcuni minerali che sono stati essenziali per la presenza e lo sviluppo delle popolazioni.
Tra questi sono sicuramente documentati nell’archivio della Certosa di Trisulti e in varie delibere comunali, confermati dalla tradizione e dalla ricerca:
IL SALE, importantissimo per l’alimentazione umana ed animale, per la concia delle pelli e come oggetto di scambio si trovava spesso in risorgenze di acqua salata o in associazione con il gesso che si estraeva nelle miniere, intorno a Collepardo, fino agli anni fra le due guerre;
IL FERRO che è ancora possibile trovare in varie località degli Ernici in composti molto ricchi, è il minerale più ricordato nei documenti e, sopratutto, reperibile, sotto forma di scorie di lavorazione, nella ricerca di superficie, in moltissimi siti operanti già dal decimo secolo a.C.;
L’ASFALTO, anche se le miniere sono rimaste operanti fino agli anni settanta, è un minerale mai menzionato in documenti, ma nei pressi della Certosa di Trisulti sotto San Domenico, per uno sbancamento ed al ponte dei Santi, per l’erosione della riva sono venute alla luce tracce consistenti della sua lavorazione in età quasi sicuramente antica (vedi il capitolo “L’asfalto” in Alatri e il suo territorio);
L’ORO, è documentato un saggio per la sua ricerca alla “Canalara” presso Collepardo che dette scarsi risultati, alla fine dell’ottocento. Veniva trovato, in piccole quantità, so che l’ultimo cercatore ne ha trovato un solo grammo in un anno degli anni quaranta, a Capo Rio e alla Cava dell’oro.
L’ARGILLA è presente un pò dovunque, in grossi giacimenti, nella zona pedemontana e si ha notizia di fornaci rimaste attive fino agli anni cinquanta. Nella ricerca di superficie, in varie località si trovano reperti che illustrano le varie tecniche di lavorazione già dall’epoca del neolitico.

LE VIE DI COMUNICAZIONE E LE TRANSUMANZE

La ricerca di pascoli e di acqua ha condizionato da sempre l’andare degli erbivori che raggiungono le loro mete per le vie naturali più comode e brevi, sia per i brevi percorsi dai pascoli all’acqua, sia per i lunghi percorsi dai pascoli estivi ai pascoli invernali, seguendo sempre lo stesso itinerario e tracciando sentieri ben marcati e se ne vedono ancora, sugli Ernici, tracciati dai bovini e dagli equini tenuti allo stato brado.
Una volta, su questi itinerari, si appostava l’uomo cacciatore e ce lo dicono i manufatti risalenti al paleolitico medio e superiore rinvenuti nella grotta dell’Arcatura, presso Alatri, a Peschio Ranaro, presso Collepardo, alle Fontanelle, presso Vico e a San Nicola, a Civita di Collepardo.
Si può dire che la transumanza è la naturale evoluzione dell’itinerario dell’uomo cacciatore che seguiva la prede dai pascoli estivi ai pascoli invernali, ma, mentre questo era legato all’andare stagionale degli erbivori selvatici, il pastore doveva, nelle migliori condizioni possibili, guidare i suoi armenti dai pascoli estivi degli Ernici ai pascoli invernali delle Paludi Pontine, in breve tempo e precorrendo le stagioni.
Gli itinerari erano gli stessi del suo predecessore uomo cacciatore, ma erano più articolati: prevedevano punti sosta organizzati con recinti per gli animali, abitazioni in capanne, luoghi per il culto e gli incontri, feste e scambi di prodotti in punti ben determinati e a date fisse.
E questo per millenni, perché la vita del pastore è stata sempre la stessa e niente è cambiato dal tempo del “re pastore” all’ultimo pastore che ha usato gli stessi pascoli e gli stessi abbeveratoi e seguito gli stessi itinerari dagli Ernici alla Paludi.
Con una grande differenza, però, il re pastore era il detentore della migliore tecnologia del momento, la usava nel migliore dei modi e l’evolveva; era il tramite, per il suo andare dal mare ai monti, di culture diverse e di scambi commerciali che interessavano tutto il bacino del Mediterraneo, viaggiava con gli stessi disaggi dei suoi contemporanei e la sua casa e l’arredo offrivano le stesse comodità.
Comodità relative, certo! ma uguali per tutti: una capanna tirata su con paglia e fango, un focolare, un pagliericcio e le vie, non ancora strade, erano le stesse per tutti.
Tutti si sono evoluti. Sono nate nuove attività sempre più specializzate e abbiamo avuto le nostre case e i nostri luoghi di lavoro sempre più confortevoli.
Il pastore no! Ha perso perfino la sua qualità di tramite.
E’ rimasto quello che era: greggi e pascoli da raggiungere, d’estate e d’inverno, sempre più solo ed emarginato, senza più storie da raccontare e prodotti da scambiare. C’erano fiumi di pecore che scendevano e salivano. C’erano feste al loro passaggio e la gente aspettava. I pastori gettano la lana e non fanno più il loro formaggio. Non ci sono più pastori.
Eppure ne ho conosciuti. Ho parlato con loro sui pascoli e nelle tappe della transumanza. Il mestiere era duro, ma dava soddisfazioni economiche. Tutti si lamentavano dei disagi che dovevano affrontare e della mancanza delle strutture essenziali alla loro attività.
C’erano anche ragazzi.
Erano diplomati e facevano i pastori. Avevano il loro gregge, il camper e il fuoristrada. Erano soddisfatti del mestiere e del guadagno. Erano tre. A turno, per unaq settimana, uno stava a casa.
Ma non ci sono strade per i pascoli né piazzole per i camper. No! Il pastore deve andare come andava cinquemila anni fa, vivere come viveva cinquemila anni fa in un mondo dove le leggi garantiscono le strutture per l’accesso ai luoghi di lavoro, la tutela, la dignità, la salute di ogni lavoratore e promuovono l’iniziativa privata.

LE CITTA’ DEGLI ERNICI

Gli storici antichi menzionano, tra le antiche città degli Ernici, Alatri, Anagni, Ferentino, Veroli e Fumone ma, quest’ultimo soltanto in occasione dell’alleanza promossa da Tarquinio il Superbo tra i Romani, i Latini e gli Ernici.
Sicuramente ce ne saranno state altre che nessuno ha mai menzionato perchè Tito Livio, a proposito della guerra condotta dai Romani contro i Sanniti, alla fine del quarto secolo,dice che Alatri, Ferentino e Veroli rimasero fedeli a Roma, mentre le altre approfittarono per scrollarsi di dosso il gioco di Roma e la sola Anagni non giustifica “le altre”.
Penso che debbano essere attribuite agli Ernici almeno le odierne Piglio e Olevano.
Tutte queste città erano situate sulle cime delle alture che controllavano il bacino del fiume Sacco e collegate tra loro dalla via pedemontana che le collegava ai Latini, a Roma e, quindi, all’Etruria ed era questa la sola strada disponibile che collegava gli Etruschi alla Campania. Tranne Fumone, tutte le altre città sopra menzionate, erano protette da mura “ciclopiche” e tutte ne conservano cospicui avanzi. Diventa, quindi, necessario accennare almeno alla tecnica di costruzione delle mura antiche.Per le loro costruzioni gli uomini hanno sempre usato il materiale disponibile che, facilmente, potevano prelevare nelle immediate vicinanze o sul luogo stesso.L’uso del materiale richiedeva sempre tecniche specifiche e la natura del suolo ne condizionava la messa in opera.
E’, quindi, naturale che gli “Hernica saxa” hanno fornito il materiale che poteva essere messo in opera, fin dall’epoca più antica, con tecniche facilmente eseguibili legate al tipo di roccia, alla disponibilità degli utensili e delle tecnologie ed infine alla resa economica.
Il fattore economico, penso, sia stato quello più determinante per la costruzione delle nostre mura. Infatti, dato il materiale, due sole erano le possibilità per costruire le mura con le pietre:
Le macere
Sono muri costruiti a secco con pietrame. Vengono ancora usati per il contenimento di terrapieni ad uso agricolo; venivano anche usati per la costruzione di abitazioni e di recinti.
E’ evidente che la macera avrebbe reso più facile il trasporto e la messa in opera del materiale, ma avrebbe posto il problema della frammentazione della roccia e non avrebbe dato garanzie di solidità per le mura.
Nel territorio abbiamo due esempi di recinti a macera: Il primo, a Monte S:Giacomo, attribuibile al bronzo finale, è ormai riconoscibile soltanto dalle pietre crollate, il secondo a Monte Pizzuto che si può datare all’inizio dell’età del ferro, si conserva ancora e nella parte più elevata, grazie alla speciale tecnica che prevedeva la costruzione del muro con strati successivi ben definiti da cortine regolari, cosa che avrebbe impedito ed ha impedito, la frana completa della porzione di muro interessata da un eventuale smantellamento.
Le mura
Si costruiscono ancora adesso con le stesse tecniche di sempre, allettando ed unendo le pietre con strati di malta. (La malta è un composto di calce e pozzolana o rena. La calce si ottiene togliendo, attraverso una lunga cottura, il carbonio dalle rocce calcaree delle quali è una componente).
E’ naturale che legare le pietre con malta avrebbe consolidato la costruzione ma avrebbe posto il problema del reperimento ed il trasporto della legna, la costruzione di fornaci per la cottura della pietra, la costruzione di vasche ed il trasporto dell’acqua per stemperare la calce, senza risolvere il problema del lavoro lungo e dispendioso della frammentazione della roccia.
Tipi di muratura presenti nel territorio:
L’uso della malta per la costruzione di un muro prevede tecniche che consentano il risparmio della calce; nel nostro territorio sono documentati le seguenti:
– Colatura di malta al centro della macera, sui singoli strati ( Monte Castello).
– Malta povera e muro di grande spessore contenuto da buon intonaco (Centro storico, principalmente nelle costruzioni rinascimentali).
– Sottili strati di buona malta per alloggiare conci ben lavorati sulle pareti esterne e riempitura di schegge e pietrisco uniti a malta (Costruzioni medioevali e ruderi del periodo romano nel centro storico e nel territorio).
Fatti i conti rimaneva più semplice ed economico ricavare dalla roccia grossi blocchi che, connessi, avrebbero con il loro stesso peso garantito la loro compattezza e la stabilità del muro.
Se si considerano la precarietà della macera o l’enorme spreco di energia per ottenere la malta, il problema del trasporto e della messa in opera di questi grossi massi diventa piuttosto relativo perché risolvibile con tecnologie semplici senza spreco di energie e di manodopera.
Per quanto visto sopra le costruzioni in opera megalitica non possono essere l’appannaggio di una cultura o di una civiltà, ma nascono dalla necessità di avere strutture solide con l’uso del materiale disponibile sul posto e delle tecniche più economiche: Travertini, tufi , conglomerati, calcari, ecc. e ne sono prova, oltre le mura le cui vestigia vanno dal Medio oriente a tutto il bacino del Mediterraneo, le mura delle civiltà precolombiane dell’America e, addirittura, le mura dei castelli giapponesi che si vedono nel film “Ran”.
Per rendersi conto del fattore economico che le fa preferire, alle altre, bisogna considerare le tecniche di costruzione per le opere megalitiche che gli studiosi hanno raggruppato nelle quattro principali:
Prima maniera: Massi appena scozzati e grossolanamente accostati con numerosi rinzeppi di pietre più piccole (Montesecco)
Seconda maniera: Massi ben lavorati ma non perfettamente connessi tra loro tanto da lasciare spazi vuoti da riempire con scaglie e pietre più piccole. ( parte della cinta esterna)
Terza maniera: Massi ben lavorati e perfettamente sagomati per incastrarsi l’uno all’altro.(Lato nord dell’Acropoli e podio del tempio sull’Acropoli dove la “terza maniera” trova l’espressione migliore che si conosca).
Quarta maniera: Massi lavorati a forma di parallelepipedo tali da poter essere sovrapposti, su file ordinate (Tratti nella parete orientale dell’Acropoli).
A parte la lavorazione del blocco che doveva essere adattato per le diverse maniere, differivano il trasporto e la messa in opera dello stesso.
Mentre, infatti per la prima maniera era sufficiente far rotolare il masso dal luogo della sua estrazione fino al suo alloggiamento nel muro, per le altre era necessario costruire uno scivolo perché il masso lavorato non subisse rotazioni tali da rendere difficile il suo alloggiamento definitivo che prevedeva, oltre al perfetto allineamento, l’incastro con le altre pietre già messe in opera.
Non penso ci sia stata necessità di tecnologie ed attrezzature speciali, sarebbero bastati una slitta robusta, pali per i giochi di leva e materiale lubrificante per agevolare lo scivolo nell’ultima fase dell’alloggiamento: in parole povere, posto il masso sulla slitta, in posizione preordinata, bastava guidarlo, per il pendio, fino al suo alloggiamento. (Sono ben riconoscibili, specialmente nel muro dell’Acropoli, i brevi piani di scivolo che consentivano di guidare il masso per l’ultimo tratto).
Più difficoltoso risultava il trasporto e l’alloggiamento dei massi per quei muri che presentavano la doppia facciata: mentre, infatti, per la costruzione dei terrapieni era sufficiente riempire lo spazio tra il muro ed il fianco del colle, per questi era necessario costruire scivoli sui quali, per mezzo di leve, si poteva far salire la slitta con il masso.
Tutto questo lavoro, però, anche se esigeva manodopera qualificata, risultava meno dispendioso in termini di energia e di lavoro e dava risultati senz’altro ottimi se è vero che, ancora oggi, a distanza di millenni, possiamo verificarne i risultati.
Un discorso a parte merita la “quarta maniera” che è caratterizzata dalla forma a parallelepipedo dei blocchi da costruzione.
Non penso, infatti, che questa tecnica sia stata determinata solamente dal tipo di roccia dalla quale si ricavavano i blocchi perché questo sarebbe stato valido per i travertini, i tufi ed i conglomerati che non presentano piani naturali di rottura e possono essere tagliati in qualunque maniera, ma non è valido per il nostro calcare che presenta punti di rottura che non sempre corrispondono alle superfici dei tagli per cui, penso, la tecnica della quarta maniera è un espediente per affrettare i lavori e renderli più economici con la prefabbricazione di pietre uniformi e standardizzate adatte per la costruzione di qualsiasi muro, nel minor tempo.
Nella “terza maniera”, invece, ogni masso è sagomato in funzione di quelli già messi in opera e di quelli che, successivamente, gli si appoggeranno in maniera tale da formare superfici di appoggio su diversi piani che, con le loro linee spezzate, rendono il muro più compatto e, soprattutto, più elastico, potendo ogni pietra ricevere le spinte e distribuirle alle altre fino a scaricare le linee di forza, attraverso archi ciechi, sulle fondamenta ricavate dalle rocce emergenti.
Senza arrivare all’ipotesi, da alcuni studiosi prospettata che, almeno alcune pietre situate in zone particolari ( per esempio sul muro della Porta dei Falli), potrebbero avere un significato legato a simboli antropomorfi, c’è da notare che il taglio degli angoli dei poligoni irregolari sarebbe tale da consentire scivoli, fermi e riassestamenti di ogni pietra in modo tale che un’eventuale spinta anomala, causata, per esempio dai terremoti, manterrebbe ogni pietra nella sua collocazione originaria senza danno per la struttura.
Se è valida questa ipotesi, s’immagini il danno causato all’Acropoli con le iniezioni massicce di cemento che, legando le pietre, hanno tolto l’elasticità alla porzione di muro da esse interessata col risultato che un’enorme massa rigida si contrappone alle singole pietre confinanti e toglie loro la possibilità di interagire e minaccia di scardinarle nel caso di spinte laterali.
La datazione:
Per quanto riguarda la datazione delle mura in opera megalitica, i diversi stili non hanno nessun rapporto con il tempo della loro costruzione e può accadere che il rozzo primo stile si appoggi al secondo, al terzo o al quarto stile.
Per le nostre mura la datazione viene collocata, nei casi limite, da alcuni i quali si rifanno al mito di Saturno, intorno al secondo millennio a. C., da altri, in base ad un’iscrizione, al secondo secolo a.C..
In verità studi seri per stabilire la datazione delle mura di Alatri e delle altre città non sono mai stati fatti e, tranne due interventi di scavo condotti, il primo, negli anni ‘50 dal prof. Filippo Coarelli a Porta S.Benedetto ed il secondo, nei primi anni ‘70, sull’Acropoli, dalla Soprintendenza nella persona della d.ssa Zevi-Gallina, non si ha notizia di altri interventi tanto che la cinta esterna è quasi completamente sconosciuta e non risulta studiata o documentata da nessuno: cosa che ha favorito il suo degrado giunto ad un punto tale da costituire un serio pericolo di crollo.

Amilcare Culicelli

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